Di Daniela Palma per KeynesBlog
La scienza come chiave di lettura della più grave crisi economica del secondo dopoguerra. E’ questa l’originale idea che anima il saggio di Francesco Sylos Labini “Rischio e previsione. Cosa può dirci la scienza sulla crisi” (Laterza 2016, pp. 262, Introduzione di Donald Gillies) in un’ampia discussione il cui obiettivo è quello di mostrare in che misura una visione distorta e sbagliata della scienza nell’economia mainstream, rappresentata dalla scuola neoclassica, abbia contribuito alla crisi e come, l’assenza di una correzione di rotta, sia destinata ad aggravarla. “Perché nessuno se ne è accorto per tempo?” chiedeva la regina Elisabetta ai professori della London School of Economics all’indomani del fallimento di Lehman Brothers nel 2008, ma la domanda sembra essersi persa nel vuoto. Dopo otto anni, infatti, gli economisti neoclassici, fautori dell’idea che il mercato sia dotato di una capacità di autoregolazione e della bontà delle politiche liberiste, non solo sono ben lontani dal fare ammenda, ma sono anche ben saldi nel rivendicare a gran voce la scientificità del cosiddetto principio di “efficienza” dei mercati formulato da Eugene Fama, facendone il cardine interpretativo della realtà economica. Di scientificità, tuttavia, non vi è nessuna traccia, poiché – come l’autore ben illustra lungo tutta la prima metà del volume dedicata anche ad un’estesa rassegna del dibattito epistemologico sul metodo scientifico – è il costrutto dei mercati efficienti ad essere incompatibile con i principi del metodo scientifico, negando la possibilità stessa di effettuare previsioni (e dunque di verificare il modello interpretativo alla luce dei dati reali).
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