Guerra e media

Nella discussione pubblica il filo che lega guerra in Ucraina a quella in Israele è quello di cancellare il contesto: tutto è iniziato ieri, con i buoni e i cattivi e tutto quello che è avvenuto prima fa parte di un tempo storico lontano che non vale la pena considerare e che comunque non incide sul presente. La guerra in un Ucraina è cominciata il 20 febbraio del 2022; quella in Palestina il 7 ottobre 2023. Chiunque provi a contestualizzare gli avvenimenti storici diventa subito un filo Putin, filo Hamas, antisemita, ecc., insomma una “quinta colonna” traditore della patria. Un modo primitivo di porre la discussione ma in assenza di argomenti e di conoscenza storica non ci sono alternative per poter mantenere una tesi insostenibile.

Nel caso dell’Ucraina l’aggressione russa è stata definita sempre “non provocata” e chi prova spiegare causa ed effetto viene condannato come colui che “giustifica” e “legittima”. Nel caso della guerra in Palestina la dinamica nei media è simile e non appena il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres, mentre ha condannato inequivocabilmente gli atti di terrore compiuti da Hamas in Israele, ha fatto un accenno al fatto al contesto sottolineando che “gli attacchi di Hamas non sono avvenuti nel vuoto, il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione”, è stato additato di essere filo-Hamas. Lo stesso trattamento era stato riservato a Papa Francesco quando, condannando l’aggressione della Russia, aveva aggiunto che “l’abbaiare della Nato alla porta della Russia” ha indotto il capo del Cremlino a scatenare il conflitto “Un’ira che non so dire se sia stata provocata ma facilitata forse sì”. Il Papa è diventato immediatamente filo-Putin, e la sua presenza nei mass media è stata visibilmente emarginata.

La rimozione del contesto storico è necessaria a far affermare una narrativa semplice e confortante in cui ci sono i buoni e i cattivi, dove i cattivi sono come Hitler e dunque ogni mezzo è giustificato: il bombardamento di Gaza diventa necessario come quello di Dresda durante la Seconda guerra mondiale, doloroso ma imprescindibile per estirpare i cattivi. Il linguista Noam Chomsky, riferendosi al caso della Russia, in una intervista ha spiegato le ragioni di questa narrativa.

“Il termine “aggressione non provocata” è piuttosto interessante. Non è mai stato usato in passato ma ogni riferimento all’invasione russa deve essere chiamato “invasione russa non provocata”. Fai una ricerca su Google per “invasione non provocata” e otterrai un paio di milioni di risultati per l’invasione non provocata dell’Ucraina. Cerca invece “invasione non provocata dell’Iraq” e troverai forse dieci persone che hanno scritto una lettera al Washington Post. In realtà, qualsiasi psicologo può spiegare esattamente cosa sta succedendo. La ragione per insistere nel chiamarla “invasione non provocata” è che si sa perfettamente bene che è stata provocata. Infatti, ci sono state provocazioni estese risalenti agli anni ’90. Questa non è solo la mia opinione, ma è l’opinione di quasi tutti i vertici dell’alto livello diplomatico degli Stati Uniti e di chiunque abbia gli occhi aperti può vederlo, siano essi falchi o colombe, chiunque sappia qualcosa a riguardo. Ovviamente il fatto che sia stata provocata non implica che sia giustificata, sono due cose separate. D’altro canto, l’invasione degli Stati Uniti in Iraq, che è stata molto peggiore dell’invasione russa dell’Ucraina, si può dire che sia stata completamente non provocata. In entrambi i casi si tratta di aggressione criminale, indipendentemente dalla provocazione, ma è molto interessante vedere come la frase “invasione non provocata” sia diventata essenziale negli ultimi uno o due anni. Devi chiamarla così, anche se tutti sanno che è una sciocchezza totale, è un modo per cercare di sottolineare e far sì che le persone non prestino attenzione a ciò che è ovvio. In realtà, la propaganda su questo argomento è piuttosto sofisticata.”

Contrastare questa narrativa è difficile non tanto per mancanza di argomenti, che sono accessibili a chiunque decida di dedicare un po’ di tempo a studiare e a leggersi qualche buon libro di storia, ma per la virulenza con cui un esercito di urlatori ripete lo stesso argomento in ogni trasmissione, editoriale e social media. Questo rumore assordante è strumentale ad intimidire chi potrebbe dare un contributo ragionato al dibattito pubblico e a rivolgersi alla pancia delle persone con meno strumenti, che tra un percorso complesso di approfondimento e una dicotomia tra il bene e il male fanno la scelta più semplice. Il problema non è solo italiano: ad esempio l’economista Jeffrey Sachs recentemente faceva notare l’involuzione del New York Times un tempo riferimento di un’area “liberal”, famoso per la pubblicazione del “Pentagon papers” diventato il caso simbolo della libertà di stampa, mentre oggi riporta le veline di “anonimi funzionari del dipartimento di Stato”. In Italia, nella provincia sempre più allineata alla peggior destra in circolazione e sempre meno autonoma nelle sue scelte politiche, le cose vanno peggio, a parte poche e meritorie eccezioni.  

Pubblicato su Servizo Pubblico

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