Sette mesi dopo l’inizio dell’offensiva su Gaza in risposta all’attacco di Hamas, abbiamo tutti conosciuto con spavento la forza brutale della macchina bellica israeliana. Una macchina che è stata costruita nel tempo per una nazione nata come un avamposto assediato che si sarebbe pian piano espanso, ma che avrebbe subito attacchi di ogni tipo. Un progetto coloniale che sin dagli albori è stato forgiato “con la spada” occupando territori rivendicati brandendo il Libro sacro.

Secondo il rapporto pubblicato dall’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma, la spesa militare globale ha raggiunto nel 2023 2.400 miliardi di dollari, record assoluto. Stati Uniti e Cina, i due Paesi che hanno speso di più hanno una quota rispettivamente del 37% e del 12% della spesa mondiale, con aumenti del 2,3% e del 6%. A seguire troviamo Russia, India e Arabia Saudita. L’insieme dei Paesi della Nato ha totalizzato 1.341 miliardi di dollari, pari al 55% della spesa militare mondiale, mentre la Russia ne spende circa un decimo, pur avendo aumentato la spesa del 24% rispetto al 2022. La spesa militare di Israele, la seconda più grande della regione dopo l’Arabia Saudita, è cresciuta del 24%, raggiungendo i 27,5 miliardi di dollari. L’aumento è stato determinato principalmente dall’offensiva a Gaza in risposta all’attacco di Hamas nell’ottobre 2023. Per comprendere le differenze tra i Paesi conviene guardare anche alla spesa per abitante: con quasi 3 mila dollari Israele ha il primato mondiale, davanti agli Usa ($ 2.700), all’Arabia Saudita ($ 2.052) e all’Ucraina ($ 1.762). Negli ultimi 10 anni, Israele ha speso ben 208 miliardi di dollari in armamenti. In rapporto al Pil, la spesa di Israele è sotto a quella ucraina, saudita e russa, ma è comunque pari al 5,3%. L’industria militare israeliana occupa il 20% della forza lavoro industriale del Paese, e l’esercito israeliano può contare su una base di 642.500 effettivi, con un rapporto sulla popolazione di 76.3, uno dei più alti al mondo (secondo solo alle due Coree e a Taiwan). Inoltre, per quanto Israele non lo abbia mai ammesso, si è dotato anche di armi nucleari, tanto che il ministro Amihai Eliyahu ha recentemente auspicato l’uso di armi atomiche contro la popolazione palestinese.
Dal 1946 a oggi, da quando gli Stati Uniti hanno iniziato a fornire aiuti ai Paesi alleati, Israele è stato di gran lunga il Paese che ne ha ricevuti di più: circa 300 miliardi di dollari (in termini reali), quasi il doppio dell’Egitto (il secondo in graduatoria), dell’Afghanistan, del Vietnam de Sud e dell’Iraq. Più di due terzi di quegli aiuti sono stati militari: una cifra enorme. Negli ultimi quarant’anni, il flusso è stato più o meno costante e pari in media a 3,3 miliardi all’anno. Lo scopo dichiarato dell’assistenza americana è sempre stato di fornire a Israele la capacità di difesa e di deterrenza militare.
Tuttavia, Israele è una ricca potenza economica e la sua industria militare è altamente sviluppata, ed è anche uno dei principali esportatori di armi, pari a 12,9 miliardi di dollari, e molti si sono chiesti il motivo della generosità degli Usa. Nel tanto famoso quanto discusso saggio del 2004 La lobby israeliana (Asterios, 2007) John Mearsheimer e Stephan Walt sostengono che il supporto incondizionato a Israele, più che a calcoli di politica estera od obblighi morali, è dovuto alla politica interna statunitense e in particolare a una lobby di potere che la condiziona. Se finora le relazioni tra Usa e Israele non erano mai state messe in discussione, ora ci sono due elementi nuovi: gli elettori americani, soprattutto quelli giovani, sconvolti dalla brutalità di Israele e la posizione geopolitica dell’America che si sta sgretolando.
La macchina bellica sta compiendo un massacro nella Striscia di Gaza e Israele è sul banco degli imputati della Corte internazionale di giustizia con l’accusa di genocidio: più passa il tempo più rimane oscura quale sia la finalità di questa strage. Sembra, infatti, che l’eliminazione militare di Hamas non sia possibile e la recente storia in Afghanistan e in Iraq dimostra che non basta la forza per aver ragione del terrorismo. Non c’è altra soluzione di quella dettata dalla comunità internazionale, che può stabilire i termini di una tregua e successivamente di una pace. La recente risoluzione dell’assemblea dell’Onu per riconoscere la Palestina come membro effettivo, un primo e dovuto passo, è stata approvata dalla gran parte dei Paesi: 143 a favore, 25 astenuti e 9 contrari, tra cui i sempre più isolati Stati Uniti. Il governo Meloni ha scelto l’astensione, senza alcuna apparente motivazione pubblica, allontanando il nostro Paese sia dal mondo arabo sia dal “Sud Globale”. Qualcuno ha chiesto il perché?