Mentre in Italia Berlusconi giustificava i tagli a università e ricerca con lo slogan: “Perché dobbiamo pagare uno scienziato, se facciamo le scarpe più belle del mondo?”, la Cina intraprendeva un cammino opposto, diventando in pochi anni una vera e propria superpotenza scientifica. Oggi ha superato sia gli Stati uniti sia l’Unione europea per numero di articoli scientifici ad alto impatto pubblicati ogni anno. La sua ascesa è stata rapidissima: rispetto alla media del periodo 1996-1998, la produzione scientifica cinese è aumentata di 18 volte, e di 3,6 volte rispetto al periodo 2006-2008. Nel 2003, gli Stati Uniti pubblicavano 20 volte più articoli della Cina; nel 2013 il rapporto era già sceso a quattro, e dal 2022 Pechino ha superato entrambi.
Questo risultato è il frutto di una strategia d’investimento di lungo periodo. Tra il 2012 e il 2022, i finanziamenti alla scienza di base sono passati da 10 a 32 miliardi di dollari, mentre quelli destinati alla ricerca applicata e allo sviluppo sperimentale sono raddoppiati, da 70 a 140 miliardi. Con 1,87 milioni di ricercatori (contro 1,43 milioni negli Usa), la Cina oggi forma molti più dottorandi in discipline Stem (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) e, entro quest’anno, ne diplomerà il doppio degli Stati Uniti. I dieci istituti di ricerca più produttivi al mondo si trovano tutti in Cina, e nel loro complesso pubblicano nove volte più articoli ad alto impatto del secondo Paese classificato (spesso gli Usa). Questa strategia ha trasformato l’economia cinese, rendendola competitiva non solo nel settore manifatturiero, ma anche nelle tecnologie avanzate: intelligenza artificiale, 5G, energie rinnovabili, veicoli elettrici. Nel 2021, la Cina ha depositato il 37,8% dei brevetti mondiali, contro il 17,8% degli Stati Uniti.
Secondo l’Australian Strategic Policy Institute, Pechino è oggi leader globale in 57 delle 64 tecnologie critiche analizzate – un’inversione radicale rispetto al 2007, quando gli Stati Uniti dominavano in 60 aree e la Cina solo in tre. Parallelamente, il peso economico globale si è spostato. Se nel 1991 i paesi del G7 rappresentavano il nucleo dell’economia mondiale, oggi il loro primato è in discussione. Il Pil combinato dei Paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) ha superato quello del G7, segnando un mutamento epocale negli equilibri globali.
Il problema centrale degli Stati Uniti – e dell’Europa, a ruota – è la crescente finanziarizzazione dell’economia. La finanza ha frenato l’innovazione industriale: oggi, per un Ph.D. in Ingegneria, è più vantaggioso lavorare a Wall Street che in un centro di ricerca tecnologica. Il paradosso è che l’economia reale, quella che produce innovazione, viene sacrificata proprio dal successo della finanza. Questo processo ha svuotato il tessuto produttivo, ampliato le disuguaglianze e minato le basi materiali del consenso nei paesi occidentali. Quando gli Stati non sono più in grado di garantire benessere, spostano la propria legittimità sulla promessa di protezione da minacce esterne: immigrazione, terrorismo, autocrati, ecc. Da qui nasce il nuovo militarismo che attraversa l’Occidente: una deriva bellicista che alimenta i conflitti presenti e prepara quelli futuri (e a questo servono gli estremisti e i decreti Sicurezza).
I governi europei, in particolare, si preparano a una guerra con la Russia non per una reale necessità strategica, ma per disperazione politica. Il modello economico che per decenni ha garantito benessere a una larga parte della popolazione è in crisi; il potere sfugge di mano e, a ogni tornata elettorale, si è costretti a inventare un nuovo “fenomeno” per perpetuare le stesse politiche. Anche la classe media si sta impoverendo e la crisi non è più periferica: coinvolge la maggioranza dei cittadini, sempre più in difficoltà ad accedere ai beni essenziali.
Nonostante ciò, i governi continuano a destinare risorse alla militarizzazione, anziché rafforzare lo stato sociale. All’orizzonte si profila, dunque, una tempesta: uno scontro tra una classe dirigente scollegata dalla realtà e una cittadinanza spinta verso la rabbia, la frustrazione e il disagio. In assenza di risposte concrete, le élite ricorrono al trucco più antico del potere: unire le masse attorno a una guerra, distrarle con il nazionalismo e cercare così di difendere un ordine che sta irrimediabilmente crollando.
Ma questa è una strategia folle. La guerra non risolverà i fallimenti del sistema: li aggraverà. L’Europa non è sull’orlo di un’invasione esterna, ma sull’orlo di una rivolta interna. E se le élite continueranno a insistere su questa traiettoria suicida, la vera esplosione non arriverà dai carri armati stranieri, ma dalle piazze delle nostre città.
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