La Ue e il fallimento del sogno di Delors

Negli anni 90 l’allora presidente della Commissione europea lanciò l’“economia della conoscenza”. Ma la sua visione fu sostituita da quella della “rendita”. Risultato: la Cina ci batte in tutto

Negli anni 90 Jacques Delors, allora presidente della Commissione europea, lanciò la visione dell’“economia della conoscenza” come strategia per il futuro del continente. In un contesto segnato da globalizzazione, rivoluzione digitale, ascesa dei paesi asiatici, delocalizzazioni produttive e crescente finanziarizzazione, Delors avvertì il rischio che l’Europa restasse indietro se avesse continuato a puntare solo su industria tradizionale e mercato interno. La sua idea era chiara: sapere, innovazione e formazione dovevano diventare il nuovo motore dello sviluppo. Conoscenza, istruzione e ricerca dovevano essere considerate risorse produttive al pari, se non più, del capitale e del lavoro.

Investire in scuola, università, ricerca e formazione permanente significava garantire non solo competitività e occupazione, ma anche cittadinanza attiva e democrazia. I pilastri erano tre: istruzione continua per affrontare i cambiamenti tecnologici e sociali; ricerca e innovazione con università e centri di ricerca come motori di crescita in collaborazione con industria e istituzioni; nuove tecnologie – allora l’ICT – come leva di sviluppo, integrate a valori sociali e culturali. In questa prospettiva, crescita economica e crescita civile dovevano procedere insieme. Questa visione ispirò il Libro Bianco Crescita, competitività, occupazione (1993) e la Strategia di Lisbona (2000), che ambiva a fare dell’Europa “l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo”.

La storia, però, ha seguito un’altra traiettoria. Negli anni Novanta, la delocalizzazione della produzione nei paesi in via di sviluppo e l’espansione della finanza hanno progressivamente frenato la capacità di innovazione a scapito dell’economia reale sia negli Stati Uniti che in Europa: era più facile guadagnare con la speculazione che con investimenti produttivi. L’“economia della conoscenza” rimase così in gran parte un ideale irrealizzato sostituita dall’“economia della rendita”. Oggi l’Europa paga il prezzo di quell’impostazione: politicamente indebolita dall’allargamento a Est, che ha ostacolato ogni reale integrazione, e vincolata alle strategie americane. La guerra in Ucraina ha aggravato il quadro, facendo esplodere i prezzi dell’energia e aprendo una crisi strutturale della manifattura. Anche sul fronte tecnologico il divario è evidente: meno del 10% dei nuovi brevetti proviene dall’Europa, contro il 20% degli Stati Uniti e il 40% della Cina.

Quest’ultima, al contrario, ha investito con decisione e pianificazione ventennale nella conoscenza. Dal 2007 la spesa in ricerca e sviluppo è quadruplicata, raggiungendo 800 miliardi di dollari, ben oltre i 500 europei. I risultati sono impressionanti: The Economist si interroga se le università cinesi non siano ormai le migliori al mondo mentre Nature certifica che, tra le prime dieci istituzioni scientifiche nelle discipline tecnico-scientifiche, sette sono cinesi. Inoltre, il numero di articoli scientifici altamente citati ha superato sia quello americano che quello europeo, segnalando una leadership scientifica sempre più consolidata.

Il rapido sviluppo scientifico è andato di pari passo con un impressionante avanzamento manifatturiero, che ha portato la Cina a diventare la “fabbrica del mondo”, con un aumento conseguente del costo del lavoro. Parallelamente, grazie a ingenti investimenti nella formazione, il numero di studenti di dottorato nelle discipline tecnico-scientifiche (STEM) è oggi circa il doppio di quello americano mentre i diplomati (3,6 milioni/anno) sono quattro volte quelli americani. Questa dinamica ha portato la Cina a conquistare il primato nei brevetti, ossia nella capacità di sviluppare nuove tecnologie, che a loro volta hanno reso possibile l’ascesa alla leadership in settori produttivi strategici, come, l’intelligenza artificiale, le automobili elettriche e gli impianti per le energie rinnovabili, in particolare quella solare.

La situazione attuale è dunque il risultato di una traiettoria di trasformazione economica, scientifica e politica che dura da quasi mezzo secolo. L’Europa è rimasta intrappolata in una duplice gabbia: da un lato una visione ideologica del libero mercato, che ha affidato a inesistenti meccanismi autoregolatori la distribuzione delle risorse; dall’altro la subordinazione a strategie geopolitiche americane, rivelatesi fallimentari. Per uscire da questa impasse è necessaria una scelta netta. Serve un nuovo modello di sviluppo basato su investimenti pubblici e privati in ricerca, istruzione e innovazione, capaci di restituire centralità al capitale tecnologico e alle competenze umane. Occorre una politica industriale in grado di ricostruire la base manifatturiera e orientarla verso settori strategici come energia, digitale e biotecnologie. È indispensabile un’autonomia geopolitica, che liberi il continente dalla dipendenza da agende esterne e gli consenta di affermare un ruolo autonomo nel mondo multipolare instaurando legami commerciali con gli altri paesi del sud globale, a partire da Russia e Cina. Infine, va promosso un nuovo patto sociale, che trasformi la crescita economica in coesione, diritti e cittadinanza attiva. Solo attraverso un radicale cambio di rotta su questi fronti i diversi Paesi europei – ciascuno con le proprie specificità – potranno tornare a essere protagonisti, facendo della conoscenza il vero motore dello sviluppo e riconquistando la capacità di guidare il proprio destino. Solo così, in un futuro ancora molto lontano, potrà forse riaprirsi la strada verso una vera politica europea, oggi smantellata da anni di scelte miopi e scellerate.

Pubblicato su Il Fatto Quotidiano

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