Il Vecchio mondo è finito. Servono riforme globali

L’ordine internazionale nato ottant’anni fa alla fine della Seconda guerra mondiale ha garantito decenni di prosperità e stabilità. Ma quel mondo non esiste più. Negli ultimi cinquant’anni si è verificato un poderoso spostamento di potere economico, scientifico e tecnologico dall’Occidente all’Oriente: un cambiamento strutturale che rende inevitabile una revisione dell’ordine mondiale.

Lo sottolinea con chiarezza Kishore Mahbubani, diplomatico e accademico di Singapore, autore di The Asian 21st Century (Springer, 2022). Alcuni dati: nel 1980 l’economia dell’Unione europea era dieci volte quella cinese; oggi hanno dimensioni equivalenti e nel 2050 l’Ue sarà la metà della Cina. Nel 1990 il Pil britannico era quattro volte quello indiano; oggi l’India ha superato il Regno Unito e nel 2050 avrà un’economia quattro volte più grande. Nel 2000 la Germania valeva tre volte l’Asean (i Paesi del Sud-Est asiatico); a metà secolo sarà la metà. Trasformazioni di tale portata, avvenute nell’arco di una sola generazione, sono rarissime nella storia e mostrano che il futuro sarà sempre più asiatico, non solo cinese. Negli ultimi cinquant’anni gli Stati Uniti hanno mantenuto stabile la propria quota di Pil mondiale, ma si sono profondamente deindustrializzati e oggi convivono con un debito pubblico di 35 trilioni di dollari: la spesa per gli interessi, seconda solo alla spesa sanitaria, ha superato quella per la difesa. L’Europa, dal canto suo, ha visto ridursi di un terzo il proprio peso economico dal 1980. In questo scenario, l’Occidente appare arretrato non solo sul piano economico, scientifico e tecnologico, ma anche su quello culturale e morale — come la tragedia di Gaza ci ricorda ogni giorno.

La Cina, al contrario, è ormai il primo partner commerciale di tutti i Paesi africani. Non si propone come modello politico da esportare, ma offre un approccio pragmatico alle relazioni economiche, in netto contrasto con l’Occidente che, salvo rare eccezioni, ha perpetuato rapporti di tipo coloniale anche dopo la fine formale del colonialismo.

La resistenza dell’Occidente a adeguarsi a questo nuovo equilibrio è evidente nelle istituzioni internazionali. Al Fondo Monetario Internazionale, l’Europa detiene il 26% dei voti pur rappresentando il 17% del Pil mondiale; la Cina, con lo stesso peso, dispone solo del 6%. Al Consiglio di Sicurezza dell’Onu Regno Unito e Francia, ormai potenze marginali, mantengono due seggi permanenti ereditati dal 1945, mentre Paesi come India o Brasile — che insieme contano 1,7 miliardi di abitanti — restano esclusi. Dopo trent’anni di discussioni senza risultati, il gruppo di lavoro sulla riforma è stato ironicamente ribattezzato Never-ending UN Security Council Reform Group.

L’Occidente rappresenta appena il 12% della popolazione mondiale, contro l’88% del resto del pianeta. In un “villaggio globale” interconnesso, il consiglio del villaggio deve rispecchiare i veri equilibri. Purtroppo, nel dibattito pubblico italiano i mutamenti epocali negli equilibri mondiali vengono quasi sempre ricondotti alla falsa contrapposizione tra “paesi democratici” e “paesi autoritari”. I rari tentativi di superare questa semplificazione — come la recente iniziativa “Disarma, il coraggio della pace” a Sesto Fiorentino — sono sistematicamente marginalizzati dai media mainstream. Il vero nodo non è “democrazia contro autoritarismo”, ma il conflitto tra gli interessi di pochi e quelli della maggioranza. In Russia e in Cina gli oligarchi restano ai margini del potere politico e, negli ultimi venticinque anni, si sono registrati indubbi miglioramenti nelle condizioni delle classi subalterne. In Occidente, invece, la politica appare sempre più subordinata alle grandi concentrazioni economiche e finanziarie. Questa concentrazione di ricchezza e potere ha eroso in profondità i principi democratici, escludendo ampie fasce della popolazione dalle decisioni politiche.

Questa deriva è particolarmente evidente in Europa, dove le élite politiche sembrano avere come unico orizzonte quello di “indebolire la Russia”. Una strategia che porta a investire in armi senza costruire eserciti, proprio in quanto vi è un’opinione pubblica largamente contraria alla guerra. La vera sfida non è dunque ideologica, ma politica: costruire un ordine internazionale capace di rispecchiare i nuovi rapporti di forza, evitando che l’ostinazione delle classi dirigenti occidentali a conservare privilegi anacronistici si traduca in instabilità e guerre. Il mondo è già cambiato: resta da scegliere se prenderne atto e negoziare un futuro condiviso, oppure inseguire un passato che non tornerà più. Questa volta, però, a differenza che in passato, non ci sarà margine per errori: adattarsi o essere travolti.

Pubblicato su Il Fatto Quotidiano

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