La guerra a Kiev è la crisi dell’Ue, non della Russia

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Comprendere le ragioni della guerra è un passaggio necessario per individuare possibili soluzioni. Dal punto di vista russo, le motivazioni sono state esplicitate con chiarezza: impedire l’espansione della Nato all’Ucraina. Questa è la causa strutturale principale del conflitto. L’intervento militare del 2022 è stato inoltre giustificato con la necessità di proteggere le popolazioni russofone del Donbass dalla guerra civile esplosa dopo il colpo di Stato del 2014, quando uno dei primi atti del nuovo governo fu l’abolizione della lingua russa come lingua ufficiale. I conflitti, tuttavia, si fanno sempre in due.

La guerra russo-ucraina è una guerra per procura, come riconosciuto da figure occidentali come Boris Johnson e Marco Rubio. Se l’invasione russa è stata illegale, non si può dire che non sia stata provocata: già nel 2008 Putin aveva dichiarato che la Russia non avrebbe mai accettato l’ingresso dell’Ucraina nella Nato. Qual è allora lo scopo della provocazione? Secondo una linea di pensiero ormai esplicitata anche a livello istituzionale europeo, l’obiettivo strategico sarebbe la disintegrazione della Federazione Russa. L’idea, più volte ribadita anche dall’Alto rappresentante Ue Kaja Kallas, è che la Russia sia un conglomerato artificiale, composto da entità statali che potrebbero diventare indipendenti, replicando i crolli del 1917 e del 1991. Così, come la guerra in Afghanistan accelerò il collasso dell’Urss, la guerra in Ucraina potrebbe avere un effetto analogo favorendo un terzo collasso della Russia che sarebbe funzionale agli interessi europei, che si troverebbero accanto un vicino più piccolo e politicamente indebolito. Anche per gli Stati Uniti, l’indebolimento della Russia rappresenta un passaggio chiave nella strategia di contenimento della Cina, vero rivale di lungo periodo. Se per l’Ucraina la guerra rappresentava il prezzo da pagare per l’ingresso nella Nato, il conflitto si sarebbe articolato su due fronti distinti: quello militare, combattuto con l’intelligence e le armi fornite dall’Occidente ma con soldati ucraini – come di fatto è avvenuto – e quello economico, imperniato sull’imposizione delle sanzioni più dure mai applicate a un Paese. Queste sanzioni, nelle dichiarazioni di leader come Mario Draghi, Enrico Letta e gran parte dell’establishment europeo, avrebbero dovuto rappresentare lo strumento decisivo per mettere in ginocchio la Russia.

Questa ricostruzione appare più realistica rispetto alla narrazione dominante, secondo cui Putin sarebbe animato da smanie imperiali e mirerebbe a conquistare l’Europa orientale, per poi spingersi fino a Lisbona. Ma questo scenario contraddice un punto centrale della stessa narrazione: come potrebbe farlo un esercito descritto come povero, disorganizzato e carente di mezzi, che da quattro anni fatica ad avanzare nel Donbass? C’è poi stato un imprevisto: le sanzioni non hanno prodotto gli effetti sperati. La Russia non è “una stazione di servizio con armi nucleari e il Pil della Spagna”, come si è spesso ripetuto e immaginato. È invece un Paese enorme, ricco di risorse e tutt’altro che isolato sul piano internazionale. Le élite europee non riescono a liberarsi della narrativa che loro stesse hanno costruito: quella di una Russia vicina al collasso. È però difficile immaginare che vi sia davvero la volontà di trasformare la guerra per procura in un conflitto diretto, anche perché mancano le armi, i soldi e i soldati per sostenerlo. Tuttavia, l’escalation retorica degli ultimi mesi rivela due aspetti complementari: da un lato, l’incapacità delle classi dirigenti europee di rivedere le proprie strategie; dall’altro, l’illusione di poter controllare gli effetti della propaganda. La retorica bellicista, infatti, può generare una dinamica autonoma, capace di sfuggire di mano e rendere irreversibile la strada verso la guerra. La legge finanziaria italiana prevede un aumento, seppur limitato, della spesa militare, mentre parallelamente si riducono le risorse destinate al welfare e continua a mancare una visione credibile di sviluppo economico. La minaccia della guerra viene utilizzata come leva per giustificare nuovi acquisti di armamenti – perlopiù di fabbricazione americana – ma si trascura del tutto un serio piano di rilancio economico. Le uniche iniziative promosse sembrano puntare ancora una volta sul turismo, un settore notoriamente caratterizzato da bassa produttività e precarietà diffusa, incapace di sostenere una crescita strutturale. In un contesto già segnato da stagnazione economica e disuguaglianze crescenti, tutto ciò non potrà che aggravare la crisi. E quando una crisi si approfondisce, emerge sempre la necessità di un nemico a cui attribuirne la responsabilità. Riusciranno le élite europee a scaricare la responsabilità dei propri fallimenti sulla Russia? Oppure – come sembra più probabile – per eterogenesi dei fini sarà proprio la guerra in Ucraina a segnare la crisi definitiva dell’Unione europea, più che quella della Russia?

Pubblicato sul Fatto Quotidiano

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