“La domanda della regina” è uno spettacolo teatrale di Guido Chiarotti e Giuseppe Manfridi. messo in scena da Piero Maccarinelli per una nuova produzione del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, con Adriano Braidotti, Ester Galazzi e Francesco Migliaccio quali protagonisti. Postfazione di Francesco Sylos Labini.
La crisi finanziaria del 2008 è stata innanzitutto un catastrofico fallimento delle previsioni economiche sotto tanti punti di vista. Uno degli errori che più è stato discusso è quelle delle tre agenzie di rating per eccellenza (Standard & Poors’s, Moody’s e Fitch Ratings): queste avevano assegnato la classe di rischio meno elevato, generalmente riservata ai governi più solventi del mondo e alle migliori aziende, a complessi strumenti finanziari la cui probabilità di default si è rivelata essere centinaia di volte maggiore di quella prevista. Così miliardi di dollari d’investimenti valutati a basso rischio si sono invece rivelati essere del tutto insicuri. Ma la responsabilità del fallimento delle previsioni non è solo delle agenzie di rating, ed è necessario andare alla radice del problema. Perché queste previsioni sono fallite in maniera così catastrofica?
Il 5 novembre del 2008 la regina d’Inghilterra visitò la prestigiosa London School of Economics, tempio dell’ortodossia del pensiero economico mainstream, e durante la cerimonia fece una domanda passata alla storia come “la domanda della regina”. Ci sono delle versioni discordanti sulle parole esatte utilizzate da sua maestà, ma il senso è questo: “Come mai la maggioranza degli economisti non ha previsto la crisi finanziaria del 2008?”. Ricordiamo, infatti, che il fallimento della Lehman Brothers nel settembre del 2008 ha dato origine alla più grande crisi finanziaria dal 1929 e alla recessione di tanti paesi che ancora permane, e che economisti di fama mondiale non sono stati capaci né di prevedere la crisi né di interpretare quello che stava avvenendo.
Due noti economisti inglesi risposero alla “Queen’s question” con una lettera alla Regina riassumendo le posizioni emerse nel corso di un forum promosso dalla British Academy: “Quindi, in sintesi, Vostra Maestà, l’incapacità di prevedere i tempi, la grandezza e la gravità della crisi e di prevenirla, pur avendo molte cause, è stato principalmente un fallimento dell’immaginazione collettiva di molte persone brillanti, sia in questo paese che a livello internazionale, di comprendere i rischi per il sistema nel suo complesso”. Più esplicitamente un altro gruppo di economisti britannici sottolinea “che negli ultimi anni l’economia si è trasformata quasi in un ramo della matematica applicata, ed è diventata distaccata dalle istituzioni del mondo reale e dagli eventi”. A mio parere però il problema non risiede nel fatto che l’economia sia o meno una scienza esatta (e non lo è), o che l’uso della matematica fornisca una solida veste scientifica, quanto piuttosto in un problema metodologico. La biologia (anch’essa non una scienza esatta) ha fatto progressi enormi negli ultimi anni grazie ad un serrato studio di esperimenti e dati, avanzando in maniera pragmatica e non facendosi guidare da ingiustificate assunzioni ideologiche.
La crisi economica è scoppiata inizialmente come una crisi bancaria e finanziaria innescata da una crisi di debito privato dovuto a un’incontrollata creazione di “denaro dal nulla” nella forma dei titoli derivati da parte delle banche sia in Europa che in America, giustificata dalla credenza che questi nuovi strumenti finanziari avrebbero più efficacemente stabilizzato i mercati. Quando questo castello di carte è crollato, con dei costi enormi per milioni di persone, il governo americano ha sostenuto le banche per quasi trenta trilioni di dollari, nella forma di prestiti e garanzie, in parte rientrati e in parte no, mentre alla fine del 2010 la Commissione Europea ha autorizzato aiuti alle banche per più di quattro trilioni di dollari. Con questi interventi la crisi finanziaria, che fino all’inizio del 2010 era una crisi di banche private e non si era tramutata in una catastrofe mondiale, è stata caricata sui bilanci pubblici che hanno così salvato i bilanci privati. In quel momento le parole d’ordine, diffuse dai principali media, spesso per bocca degli stessi economisti neoclassici che avevano in passato sostenuto ogni scelta di deregolamentazione e liberalizzazione dei mercati, sono diventate però altre: eccesso di indebitamento degli Stati, eccesso di spesa pubblica, pensioni insostenibili, spese per l’istruzione “che non ci possiamo più permettere”, ecc. Come conseguenza, anche per rispettare i nuovi provvedimenti, primo tra cui l’incredibile norma del pareggio di bilancio inserita in Costituzione senza una discussione pubblica da un Parlamento quantomeno distratto, è stato fatto passare senza grandi difficoltà il messaggio che lo Stato spende troppo e dunque che è necessario tagliare le spese pubbliche: asili, scuole, sanità, istruzione, ricerca, pensioni, ecc.
Questa incredibile e inaccettabile mistificazione è stata possibile grazie ad una sorprendente e pervasiva egemonia culturale avvenuta non solo attraverso la conquista delle posizioni accademiche dominanti da parte degli economisti neoclassici, ma anche, e soprattutto, con la sovrapposizione del loro ruolo accademico, politico e di orientamento dell’opinione pubblica, che gli stessi rivestono essendo molti di loro editorialisti di grandi quotidiani nazionali o “consiglieri del principe”. Come mostrato nel libro di Mark Buchanan “Previsioni. Cosa possono insegnarci la fisica, la meteorologia e le scienze naturali sull’economia” (Malcor D’E,2014).idee teoriche che sembrano innocue elucubrazioni di qualche strampalato accademico sono diventate infatti potenti mezzi di condizionamento politico e culturale. Scrive il premio Nobel per l’economia Paul Samuelson: “Non mi interessa chi scrive le leggi di una nazione o chi elabora i suoi trattati, se posso scrivere i suoi libri di testo di economia”. La via d’uscita alla crisi economica passa innanzitutto attraverso un cambiamento di prospettiva culturale che a mio parere i nuovi concetti delle scienze naturali insieme con la loro metodologia possono fornire all’economia.
La domanda della Regina si è rivelata dunque una cartina di tornasole per mostrare il surreale dibattito che si è svolto in campo economico nel periodo precedente la crisi e che di fatto ha aperto la strada alla stessa. È stata una delle prime volte in cui gli economisti, e in particolare quelli appartenenti alla scuola mainstream, la cosiddetta scuola neoclassica, sono stati chiamati a spiegare le loro posizioni e le ragioni del fallimento delle previsioni di fronte all’opinione pubblica. In questo modo il dibattito è stato portato all’attenzione di un vasto pubblico, invece di essere relegato all’interno della comunità accademica o, peggio ancora, all’interno della stessa scuola mainstream (di cui, peraltro, quasi tutti i docenti della LSE fanno parte).
La scuola neoclassica era ed è infatti ampiamente criticata dalle altre scuole del pensiero economico, ma questa discussione era stata fino ad allora troppo tecnica per raggiungere un ampio pubblico. A parere di chi scrive, l’analisi all’interno della scuola neoclassica sulle cause del fallimento delle previsioni rispetto alla più grande crisi economica degli ultimi ottanta anni è stata completamente autoreferenziale e auto-assolutoria. Al contrario, questa discussione deve essere portata davanti al più ampio pubblico possibile, perché le decisioni che sono prese in politica economica in molti paesi e in tutte le principali istituzioni internazionali (Fondo Monetario Internazionale, OCSE, Banca Mondiale, WTO, Banca Centrale Europea, ecc.) sono suggerite o addirittura tratte direttamente da modelli ispirati a quella teoria economica (ad esempio i cosiddetti modelli DSGE – “Dynamic Stochastic General Equilibrium”). Le decisioni che vengono prese però riguardano tutti i cittadini, poiché tutti ne subiamo le conseguenze: è dunque cruciale che i fondamenti teorici di questi modelli siano messi in discussione di fronte all’opinione pubblica. Non trattandosi inoltre di gravità quantistica o di teoria delle stringhe, non è neppure troppo complicato spiegare in termini semplificati (ma comunque rigorosi dal punto di vista logico) di cosa si tratta, in modo che tutti possano farsene un’opinione.
Il nucleo dell’analisi economica standard è la teoria dell’equilibrio competitivo generale. La sua formulazione moderna è dovuta all’economista francese Leon Walras e in seguito è stata sviluppata da diversi autori a cominciare dal contributo fondamentale di Gerard Debreu e Kenneth Arrow. Dal lavoro di Walras in poi gli economisti neoclassici concettualizzano gli agenti, che possono essere le famiglie, le imprese, ecc., come entità razionali che ricercano i «migliori» risultati, cioè i massimi guadagni possibili, situazione che, da un punto di vista matematico, equivale a trovare il massimo di un’opportuna funzione di utilità. Arrow e Debreu, grazie a una serie di assunti teorici (del tutto irrealistici, come da loro stessi sottolineato), furono in grado di provare l’esistenza dell’equilibrio nel mercato. Tale situazione di equilibrio corrisponderebbe a ciò che gli economisti chiamano «l’ottimale di Pareto», cioè una situazione in cui nessun arrangiamento concepibile dei prezzi o delle quantità di prodotti, persino gestite da un pianificatore centrale infinitamente intelligente, porterebbe a un miglior esito senza perdite per almeno un produttore o un’impresa. La dimostrazione dell’esistenza di un equilibrio competitivo dovrebbe permettere di comprendere la maniera in cui funziona un’economia di mercato, dove ognuno agisce indipendentemente dagli altri ottimizzando il proprio interesse. Tuttavia, non è mai stato dimostrato, anche usando ipotesi che permettono di semplificare il problema in modo del tutto irrealistico, che l’ equilibrio concorrenziale sia unico e che, soprattutto, sia stabile – cosa fondamentale perché tutta questa costruzione abbia un senso (un equilibrio instabile non è rilevante per questa costruzione teorica, in quanto, come una pallina sulla sommità di una montagna, è sufficiente una piccola perturbazione, come una folta di vento, per romperlo generando un grande effetto sul sistema).
I problemi concettuali di quest’approccio sono davvero enormi e sono stati dibattuti da moltissimi economisti le cui critiche sono state però lasciate senza risposta. Dal punto di vista della fisica moderna la perplessità concettuale è la seguente. Da più di cinquant’anni si conoscono e si studiano sistemi fisici complessi per i quali, anche se uno stato di equilibrio stabile esiste in teoria, esso può essere totalmente irrilevante in pratica, perché il tempo per raggiungerlo è troppo lungo rispetto ai tempi caratteristici del sistema. Vi sono inoltre, e se sono abbondantemente studiati, sistemi che sono intrinsecamente fragili rispetto all’azione di piccole perturbazioni, e che evolvono in modo intermittente con il susseguirsi di epoche stabili intervallate da cambiamenti rapidi e imprevedibili. In altre parole, per molti sistemi fisici l’equilibrio stabile non è una condizione raggiunta in maniera naturale. Molti sistemi raggiungono e si evolvono in una situazione di meta-stabilità, ma non in una situazione di vero e proprio equilibrio (come sarebbe quello di un gas in una stanza isolata o di una pallina in che si trovasse in fondo a una valle): si trovano cioè in una situazione di temporanea stazionarietà ma di potenziale instabilità, tanto che è sufficiente una piccola perturbazione per causare grandi effetti. Come succede, per esempio, nel caso dei terremoti quando si accumula l’energia potenziale per effetto del moto relativo di due faglie tettoniche. Questa energia, quando supera una certa soglia critica, sarà a un certo punto rilasciata sotto forma di onde sismiche per una piccola causa e cioè ci sarà un terremoto: la dinamica dei terremoti è dunque rappresentata da periodi di apparente quiete in cui il sistema si carica e terremoti improvvisi (ciclici e non periodici) in cui l’energia accumulata è rilasciata.
Proseguendo in questa metafora ci possiamo chiedere quale sia la causa dell’accumulazione di energia potenziale nel sistema economico, che è rilasciata al momento di una crisi. A mio parere la causa è stata (ed è tutt’ora) proprio la fiducia cieca e immotivata nell’autoregolamentazione dei mercati, da cui consegue l’enorme sviluppo di strumenti finanziari che grazie alla liberalizzazione dei mercati e alla loro deregolamentazione, secondo il credo teorico dominante, avrebbero dovuto distribuire il rischio in maniera ottimale: il contrario di quello che è successo in realtà, come purtroppo abbiamo tutti sperimentato.