Questo è il testo che ho riassunto in 5 minuti all’Assembla Nazionale – per la Democrazia e l’Uguaglianza organizzata da Anna Falcone e Tomaso Montanari al Teatro Brancaccio il 18.6.2017. Una versione più breve di questo articolo è stato pubblicato su LEFT l’11 Giugno 2017
Spesso sentiamo dire che destra e sinistra sono due categorie politiche obsolete e prive di un reale significato. La confusione aumenta se poi osserviamo le politiche dei governi di destra e sinistra che si sono alternati nel nostro paese negli ultimi vent’anni. Tuttavia non è esagerato concludere che gli uni sono stati il prolungamento degli altri per molti aspetti che riguardano le politiche messe in atto. In particolare, un osservatorio privilegiato per capire in che direzione è stata diretta l’azione dei diversi governi che si sono ultimamente succeduti, è rappresentato dall’istruzione superiore e dalla ricerca: questo settore racchiude due punti chiave cruciali, l’uguaglianza e lo sviluppo o, meglio, la disuguaglianza e il sottosviluppo.
I tagli che sono stati effettuati nell’università, e più in generale nell’intero settore dell’istruzione, sono numeri che corrispondono ai danni provocati da una guerra. Una guerra in cui non ci sono macerie materiali quanto piuttosto ci sono macerie umane. Un taglio del 20% programmato nel 2008 per sotto-dimensionare il sistema universitario si è tradotto in un taglio dell’80% dei fondi per progetti di ricerca (rispetto all’inizio del nuovo millennio), ad un taglio del 40% dei corsi di PhD e a un taglio dell’80% del reclutamento.
L’università e la scuola in totale sono stati i settori dove, nell’ambito della pubblica amministrazione, c’è stata la variazione di personale dipendente più marcata.
In compenso il numero di contratti temporanei (RTdA, assegni, ecc.) è aumentato in maniera esponenziale. E quali prospettive rimangono ai postdoc? Come mostra un recente studio dell’ADI più del 90% degli assegnisti di ricerca vengono di fatto espulsi dal sistema universitario.
La grande crisi che stiamo attraversando da quasi dieci anni nel nostro Paese, come in molti altri a cominciare dai paesi dell’Europa meridionale, non sembra volgere a un termine e anzi permane una situazione di grande instabilità, incertezza e depressione. Uno degli effetti della crisi è stato d’amplificare le disuguaglianze economiche che sono oggi diventate insormontabili e sembrano aver annullato per il singolo la possibilità di migliorare la propria situazione attraverso il volano principe della mobilità sociale, l’istruzione superiore.
Tuttavia, se l’università era il laboratorio d’idee nuove e originali, oggi l’università è diventata il territorio ideale per sperimentare come sopprimerle. Inoltre, se l’istruzione era considerata come il luogo principale per l’emancipazione sociale, ora sembra essere ostaggio di una casta auto-referenziale, racchiusa in se stessa e troppo dipendente dalla politica.
Questo è avvenuto perché una volta conquistata l’università, il luogo dove il pensiero critico, innovativo e indipendente dovrebbe essere sviluppato, tutto il resto cede senza problema. Basta ad esempio dare una scorsa ai consiglieri economici degli ultimi governi, demiurghi delle politiche che hanno precarizzato senz’appello le giovani generazioni annullando le tutele sul lavoro. Oppure è sufficiente osservare i vari apprendisti stregoni che, al servizio del potente di turno, cercano di cambiare ora la Costituzione ora la legge elettorale, sempre nell’interesse del particolare.
La ricerca subisce dunque in modo particolare la crisi economica e politica in cui siamo immersi. Da una parte la penuria di risorse è diventata un problema strutturale con tanti giovani scienziati che hanno risibili possibilità di continuare a svolgere l’attività di ricerca in modo stabile. D’altra parte l’esasperata competizione sta drogando il lavoro dei ricercatori con il risultato di cambiare completamente la fisionomia della ricerca scientifica: da impresa intellettuale e libera a produzione di risultati risibili ma utili immediatamente per qualcosa, o peggio, per qualcuno.
La maniera in cui è stata gestita la crisi economica, attraverso le politiche di austerità, proprio nei paesi più in dissesto da un punto di vista finanziario, ha dunque dato luogo a un soffocamento della ricerca e dell’innovazione: questa situazione, generando un circolo vizioso, inibisce a sua volta la possibilità di sviluppare quelle ricerche innovative che potrebbero contribuire a guidarci fuori dalla crisi stessa. Tuttavia ciò che più grave è che, per effetto della crisi, quelle forze intellettuali che dovrebbero fornire nuove idee ed energie sono state marginalizzate in un limbo di precarietà da cui non si vede l’uscita: per l’assenza di catalizzatori politici le nuove generazioni si trovano atomizzate e senza una prospettiva né individuale né comune.
L’Italia è stato uno dei pochi paesi che in conseguenza della crisi economica ha tagliato la spesa per l’istruzione. Per contro in Germania dal 2000 la spesa in Ricerca e Sviluppo ha raggiunto il 3%, aumentando del 70% ! E nel contempo le tasse universitarie sono state annullate (mentre da noi sono cresciute in maniera costante).
Si è preferito dirottare le risorse in maniera da aumentare le disuguaglianze in nome di un’ideologica meritocrazia che ha di fatto ristretto l’accesso all’istruzione e ridotto la cruciale diversificazione della ricerca. Gli ultimi governi hanno lavorato alacremente in questo senso, con lo scopo palese di incanalare le risorse del paese su interessi molto particolari. Questa strategia nel breve e medio termine ha prodotto la desertificazione industriale, tecnologica, scientifica e culturale del paese e nel lungo termine sarà disastrosa poiché le economie emergenti stanno aumentando la competitività effettuando massicci investimenti in Ricerca e Sviluppo proiettandosi così su mercati in cui fa premio la capacità di innovare. Per questo la ricostruzione della base scientifica, tecnologica e culturale del nostro paese deve essere una priorità per una forza politica che non è al servizio del particolare; e per una ragione moto semplice: per non rischiare di rimanere esclusi dal nuovo contesto competitivo internazionale, dove le economie emergenti hanno ancora salari molto più bassi dei nostri mentre crescono tecnologicamente. L’investimento nella formazione e nella ricerca segna dunque la linea di demarcazione tra le forze politiche progressiste, interessante allo sviluppo del paese, e conservatrici, interessate ad avvantaggiare nell’immediato le élites più forti e foriere di disuguaglianze.
Così mentre Luigi Zinagles dichiarava
Ci sono un miliardo e quattro di cinesi e un miliardo di indiani che vogliono vedere Roma, Firenze e Venezia [e Cuneo – aggiunge Briatore dallo studio]. Noi dobbiamo prepararci a questo. L’Italia non ha un futuro nelle biotecnologie perché purtroppo le nostre università non sono al livello, però ha un futuro enorme nel turismo. Dobbiamo prepararci per questo, non buttare via i soldi a fondo perduto
E mentre Flavio Briatore suggerisce di aumentare la scuole alberghiere per uscire dalla crisi e dare lavoro ai giovani, il punto politico che deve essere tenuto è tutt’altro. Per non diventare un popolo di camerieri e per non puntare sulle scuole alberghiere per lo sviluppo del paese c’è bisogno della ricostruzione della base scientifica, tecnologica e culturale del paese. Dunque più istruzione per tutti. Dunque più ricerca. Dunque più innovazione.