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Perché l’investimento in ricerca è fondamentale?

Diapositiva110M: L’egemonia culturale di cui lei parla si realizza in una vera e propria imposizione di una visione del mondo che viene traslata anche ad altri ambiti della società, dalla politica ai media, dai quali abbiamo sentito ripetere come un mantra che “non esistono alternative”. Lei sostiene che anche la ricerca sembra soffrire, invece che giovarsi, di un’ipercompetitività basata sul “dogma dell’eccellenza” veicolata da questa visione del mondo. Nel suo libro dedica una parte importante al ripensamento del ruolo della ricerca e delle modalità dei finanziamenti a essa assegnati, proprio come strategia di uscita da una visione del mondo dogmatica e al contempo come fucina di nuove soluzioni. Perché l’investimento in ricerca è un passaggio fondamentale per risolvere i problemi di un’economia e di una scienza economica che non godono di buona salute?

FSL: Penso che un investimento in ricerca più solido in un paese come il nostro, ma anche negli altri paesi dell’area mediterranea, rappresenti una condizione necessaria, ma non sufficiente, per iniziare quella lunga e tortuosa via che potrà farci uscire dalle diverse crisi in cui siamo immersi: culturale, politica, economica. Ci dovrebbero essere due chiare priorità: dare la possibilità alle giovani generazioni di avere un ruolo nella ricerca e nella società e scoperchiare il tappo che sta soffocando la ricerca moderna. Si tratta evidentemente, anche in questo caso, di problemi che non hanno solo una dimensione nazionale, ma che hanno anche una caratterizzazione internazionale.

Da una parte la marginalizzazione delle nuove generazioni e la loro progressiva precarizzazione in nome dell’efficienza che scaturirebbe dalla sempre più pressante competizione sono un fenomeno di dimensioni internazionali. Ma sicuramente i paesi dell’Europa del sud, e all’interno di questi le aree geografiche più svantaggiate (che nel nostro paese coincidono con quelle meridionali), sono sicuramente i più colpiti da questo fenomeno: paradossalmente sta avvenendo un soffocamento proprio di quelle energie che dovrebbero fornire le nuove idee e prospettive di cui abbiamo un disperato bisogno.

Dall’altra parte la pressante competizione unita alla scarsità di risorse per la ricerca sta rendendo la gran parte della ricerca accademica una corsa sfrenata al conformismo: una ricerca del consenso sociale invece che una ricerca della verità scientifica. Sappiamo bene però, e la storia ce lo insegna, che le idee innovative provengono molto spesso, se non sempre, da scienziati che intraprendono ricerche che si discostano da quelle che fanno la maggior parte degli altri. Il conformismo sta dunque soffocando la ricerca attuale, e questo è un fenomeno a livello internazionale, anche se nel nostro paese ci mettiamo del nostro con un’agenzia della valutazione che ha introdotto criteri e parametri sconosciuti a livello internazionale e che aggravano questa tendenza.

D’altra parte non vedo altre possibilità per un paese come il nostro. Al contrario di quello che pensa, ad esempio, l’economista Luigi Zinagles, l’Italia non può avere un futuro nel turismo lasciando stare la ricerca nei campi di punta come le bio-tecnologie, anche se ovviamente il turismo è e rimarrà una risorsa importante per il nostro paese. Tuttavia una delle più importanti economie del mondo per rimanere tale deve puntare a una specializzazione produttiva in cui la conoscenza, e cioè la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica, giochi un ruolo chiave. Per far sì che questo avvenga, data la struttura del nostro sistema produttivo dominato da piccole e medie imprese che non investono in ricerca e innovazione, c’è bisogno che lo stato faccia uno sforzo d’investimenti di una certa dimensione. Ricordiamoci che negli Stati Uniti la mano visibile del mercato è operativa grazie a un investimento di 40 miliardi di dollari all’anno in ricerca fondamentale, investimento che ha rappresentato il traino per lo sviluppo tecnologico e scientifico di quel paese. Solo nei paesi periferici si sente parlare di puntare sul turismo e lasciar perdere l’università e la ricerca: un’altra prova, se ce ne fosse ancora bisogno, dell’impreparazione tecnica di questo genere di economisti e del ruolo politico deleterio che svolgono.


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Economia, scienza e previsioni

M: Si verifica dunque una discrasia tra modello teorico e realtà. I modelli economici si basano su assunzioni che risultano essere approssimazioni della realtà troppo semplicistiche. Gli economisti paiono perdersi in un iperuranio di bei modelli, coerenti solo matematicamente, ma che falliscono sistematicamente nelle loro previsioni. E imperterriti proseguono nel loro vilipendio della realtà. A suo parere quanto è legittimato un economista a dirsi scienziato o l’economia a definirsi scienza?eqz_neocls

FSL: Uno dei problemi cruciali è proprio quello. Si badi bene che l’economia è una scienza sociale molto difficile, interessante e affascinante. Ma non è questo il punto della discussione sul carattere pseudo-scientifico dell’economia neoclassica che usa una gran quantità di matematica per dare l’impressione di risolvere il problema economico attraverso teoremi rigorosi. Anzi, quest’apparente veste tecnico-scientifica non corrisponde, come abbiamo discusso nel libro in dettaglio, né alla capacità di fare previsioni per il futuro né allo sviluppo di una tensione per confrontare i modelli con le osservazioni empiriche.

In realtà l’apparente veste tecnico-scientifica è un trucco che serve solo a far passare quel tipo di economia per una scienza capace di trovare in maniera univoca le risposte alle diverse questioni che riguardano la vita economica di un paese, di una società o di un individuo, in altre parole è una maniera artificiosa per far apparire le scelte politiche come risultati tecnico-scientifici, e quindi neutri.

In altre parole: vogliamo giocare a fare gli scienziati? Bene: gli scienziati spiegano fenomeni, nel senso che sono capaci di formulare modelli per spiegare le osservazioni in maniera precisa e sono anche capaci di fare delle previsioni per il futuro (e magari si assumono anche le responsabilità dei propri fallimenti). Gli economisti, e qui mi riferisco ai neoclassici e più tecnicamente all’assunzione di equilibrio che sottende buona parte dell’economia moderna (anche quella che si discosta dal cosiddetto neoliberismo), non sono capaci né di fare previsioni di successo né di spiegare in modo preciso la realtà come avviene per le scienze dure. Tantomeno traggono conseguenze dai loro fallimenti, quale ad esempio eclissarsi dal dibattito pubblico come avrebbero dovuto fare molti di loro già allo scoppio della crisi.

In pratica si tratta di una pseudo-scienza e di pseudo-scienziati, non diversi dagli astrologi che anche usano la matematica e un formalismo apparentemente rigoroso ma completamente irrilevante per spiegare la realtà. Questa pseudo-scienza è utilizzata per supportare interessi politici ed economici ben precisi e questo a mio parere è particolarmente scorretto proprio rispetto all’etica di uno studioso.


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Le leggi dell’economia sono universali e immutabili?

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M: Ricapitolando: i modelli degli economisti risultano troppo astratti e sfuggono alla falsificazione della realtà fallendo le previsioni, non spiegano i fenomeni, fanno un uso strumentale-retorico della matematica, non ottengono sostegno empirico. Questi sono marchi tipici della pseudoscienza e l’attività dell’economista può essere secondo lei accostata a quella dell’astrologo che predice il futuro in base a incroci casuali di astri. Nel loro modello tutto funziona alla perfezione, peccato che la realtà non funzioni così. Ci si potrebbe domandare se forse non stiano cercando qualcosa che non c’è, ponendosi le domande sbagliate. Le regolarità della natura che la ricerca scientifica cerca di individuare sono quasi sempre indipendenti dall’attività umana, dalle nostre decisioni, dalla nostra storia. Le regole delle società umane e le relazioni economiche sono invece qualcosa che dipende da noi in modo essenziale, sono il risultato di interazioni e contrattazioni, di una lunga storia tutta umana. Tentare di estrapolare leggi universali utili poi a elaborare schemi predittivi dalla società umana non è paragonabile al tentativo di estrapolare leggi di natura dal gioco del Monopoli?

FSL: Bisogna sempre precisare che stiamo discutendo di quegli economisti neoclassici che usano in maniera infondata scientificamente idee e concetti che sono stati sviluppati magari cinquanta anni fa da studiosi e intellettuali di un certo livello. Le leggi dell’economia, a differenza di quelle naturali, non sono né universali né immutabili. Inoltre, mentre nel caso dei fenomeni naturali non si può intervenire sulle leggi che regolano la loro dinamica, nel caso dell’economia queste leggi sono frutto delle decisioni umane e dunque possono essere cambiate dall’azione politica. Per questo motivo i decisori politici, così come l’opinione pubblica nel suo insieme, dovrebbero essere molto sensibili al tema delle previsioni e alla capacità dei modelli teorici di spiegare la realtà.

Quando si parla di economia, infatti, non è possibile rapportarvisi alla stregua di una disciplina delle scienze naturali, poiché l’oggetto del suo studio è la società con caratteristiche storicamente determinate. Guardare a un «modello» piuttosto che a un altro nell’interpretazione fondamentale dei fatti economici non significa quindi semplicemente introdurre assunzioni alternative rispondenti a uno statuto epistemologico in grado di testarne la validità – così come accade nelle scienze naturali. Piuttosto, significa sposare delle vere e proprie Weltanschauungen diverse, visioni alternative del mondo in cui la componente egemonica della cultura dominante in ogni dato periodo svolge un ruolo determinante. In questo senso è possibile affermare che la genesi della crisi, il suo svolgimento, le possibilità di uscirne e gli effetti sulle economie che la attraversano sono intrinsecamente collegati a un problema di egemonia culturale. Il perdurare delle politiche di austerità, malgrado sia stato ampiamente mostrato che stiano aggravando la crisi piuttosto che mitigarla, è un esempio eclatante di questa situazione. L’origine della crisi è dunque prima che politica, culturale.


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Quali sono i principi alla base dell’approccio neoclassico?

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M: Già a partire da questa sua prima risposta si aprono e si intrecciano molteplici questioni fondamentali che meritano di essere approfondite. Pensiamo potrebbe essere fruttuoso percorrere una strada esplicativa a partire dai problemi epistemologici che presenta la teoria mainstream, per giungere poi ai problemi socio-politici che ne conseguono. Gli economisti neoclassici sono stati capaci di organizzare un paradigma che si è imposto in una molteplicità di settori e istituzioni, arrivando a monopolizzare completamente la discussione economica che informa le decisioni politiche. Quali sono i principi alla base di questo modello?

FSL: Il nucleo dell’analisi economica standard, che rappresenta anche un’importante base per le sue numerose applicazioni nel mondo della politica, è la teoria dell’ equilibrio competitivo generale. La sua formulazione moderna è dovuta all’economista francese Leon Walras e in seguito è stata sviluppata da tanti autori a cominciare dal contributo fondamentale di Gerard Debreu e Kenneth Arrow. Dal lavoro di Walras in poi gli economisti neoclassici concettualizzano gli agenti, che possono essere le famiglie, le imprese, ecc., come entità razionali che ricercano i «migliori» risultati, cioè i massimi guadagni possibili, situazione che da un punto di vista matematico equivale a trovare il massimo di un’opportuna funzione di utilità. Arrow e Debreu grazie a una serie di assunzioni teoriche (che sono del tutto irrealistiche) furono in grado di provare l’esistenza dell’equilibrio nel mercato. Tale situazione di equilibrio corrisponderebbe a ciò che gli economisti chiamano «l’ottimale di Pareto», cioè una situazione in cui nessun arrangiamento concepibile dei prezzi o delle quantità di prodotti, persino gestite da un pianificatore centrale infinitamente intelligente, porterebbe a un miglior esito senza perdite per almeno un produttore o un’impresa. La dimostrazione dell’esistenza di un equilibrio competitivo dovrebbe permettere di comprendere la maniera in cui funziona un’economia di mercato, dove ognuno agisce indipendentementedagli altri. Tuttavia, non è mai stato dimostrato, anche usando ipotesi assolutamente irrealistiche, che permettono di semplificare il problema in modo del tutto irragionevole, che un equilibrio concorrenziale esista, sia unico e che, inoltre, sia stabile – cosa fondamentale perché tutta questa costruzione abbia un senso.

I problemi concettuali con quest’approccio sono davvero enormi e sono stati dibattuti da tantissimi economisti le cui critiche sono state nascoste sotto il tappeto e lasciate senza risposta. Diversi fisici hanno anche cercato di capire il problema, ma sono rimasti generalmente perplessi da quest’approccio al problema economico. Da più di cinquant’anni, infatti, si conoscono e si studiano sistemi fisici complessi per i quali, anche se uno stato di equilibrio stabile esiste in teoria, esso può essere totalmente irrilevante in pratica, perché il tempo per raggiungerlo è troppo lungo. Altrimenti vi sono sistemi che sono intrinsecamente fragili rispetto all’azione di piccole perturbazioni, evolvendo in modo intermittente con un susseguirsi di epoche stabili intervallate da cambiamenti rapidi e imprevedibili. In altre parole, per molti sistemi fisici l’equilibrio stabile non è una condizione raggiunta in maniera naturale: diversi sistemi raggiungono invece una situazione di meta-stabilità e non un vero e proprio equilibrio, come quello di un gas in una stanza isolata o di una pallina in fondo a una valle, cioè una situazione di temporanea stazionarietà ma di potenziale instabilità, tanto che è sufficiente una piccola perturbazione per causare grandi effetti. Come succede quando, per esempio, si accumula l’energia potenziale per effetto del moto relativo di due faglie tettoniche. Questa energia, quando supera una certa soglia critica, sarà a un certo punto rilasciata sotto forma di onde sismiche e cioè ci sarà un terremoto: la dinamica dei terremoti è dunque rappresentata da periodi di apparente quiete in cui il sistema si carica e terremoti improvvisi (ciclici e non periodici) in cui l’energia accumulata è rilasciata.

Proseguendo in questa metafora ci possiamo chiedere quale sia la causa dell’accumulazione di energia potenziale nel sistema economico, che è rilasciata al momento di una crisi. A mio parere la causa è proprio la fiducia cieca e immotivata nell’autoregolamentazione dei mercati, da cui consegue l’enorme sviluppo di strumenti finanziari che grazie alla liberalizzazione dei mercati e alla loro deregolamentazione, secondo il credo teorico, dovrebbero distribuire il rischio in maniera ottimale. Esattamente il contrario di quello che succede in realtà, come purtroppo abbiamo sperimentato.


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La domanda della Regina

 

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Diapositiva39M: Lei racconta nel suo libro che nel novembre del 2008 la regina Elisabetta II, durante una visita presso la London School of Economics, chiese alla platea gremita di insigni professori come mai non avessero previsto la crisi. Si potrebbe pensare che per rispetto e imbarazzo gli astanti non trovarono né avanzarono una risposta subitanea che soddisfasse la “domanda della Regina”. Certo ci si sarebbe aspettati che da insigni cultori della “scienza economica” arrivasse una spiegazione puntuale e appunto “scientifica” del fenomeno, ma così non è stato. Quella domanda celava fra le sue pieghe una sorta di cortocircuito (se così lo si può definire) nel quale sono incappati molti economisti. Quale vaso di Pandora ha scoperchiato la domanda della Regina?

FSL: La domanda della Regina è stata una cartina di tornasole per mostrare l’irreale dibattito in campo economico. È stata una delle prime volte che gli economisti, e in particolare quelli appartenenti alla scuola mainstream, sono stati chiamati a spiegare le loro posizioni e le ragioni del fallimento delle previsioni di fronte all’opinione pubblica. In questo modo il dibattito è stato portato all’attenzione di un vasto pubblico, invece di essere relegato all’interno della comunità accademica o, peggio ancora, all’interno della stessa scuola mainstream di cui quasi tutti i docenti della LSE fanno parte. Infatti, la scuola neoclassica è stata ampiamente criticata dalle altre scuole di pensiero economico, ma quel tipo di discussione è stata troppo tecnica per raggiungere un’ampia audience. All’interno della scuola neoclassica l’analisi sulla causa del fallimento delle previsioni della più grande crisi economica degli ultimi ottanta anni è stata completamente autoreferenziale e auto-assolutoria.

Al contrario, la discussione su questo fatto deve essere portata davanti al più ampio pubblico possibile perché le decisioni che sono prese in politica economica in molti paesi e in tutte le principali istituzioni internazionali (FMI, OCSE, WB, WTO, ecc.) sono suggerite o anche prese direttamente da economisti neoclassici in base a modelli che hanno certi fondamenti teorici. È dunque cruciale che i fondamenti teorici di questi modelli siano discussi di fronte all’opinione pubblica, proprio perché tutti ne subiscono le conseguenze. Inoltre, non trattandosi di gravità quantistica o della teoria delle stringhe, non è neppure molto complicato spiegare in termini semplici di cosa si tratta in modo che tutti possano farsene una opinione.

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Ricerca fondamentale e innovazioni tecnologiche

 

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La casa editrice Laterza ha pubblicato il mio libro “Rischio e previsione Cosa può dirci la scienza sulla crisi“.  Di seguito ne anticipo un estratto. 

Per capire come si formano le nuove idee, è dunque necessario avere ben presente che il motore della ricerca è alimentato dalle motivazioni dei ricercatori, dalle loro passioni e dalle loro curiosità. L’idea fondamentale della ricerca e del suo funzionamento, che troppo spesso è dimenticata non solo dagli osservatori esterni ma anche dagli stessi scienziati e ricercatori, è ben esemplificata dalla seguente storiella. Una persona si mette a cercare la chiave che ha smarrito sotto un lampione, «perché lì c’è la luce». Cercare la chiave dove c’è la luce, anziché dove la si è effettivamente smarrita, è il passatempo preferito dei ricercatori di tutte le discipline. La ricerca, però, corrisponde non a cercare la chiave dove c’è luce, ma a cercare di far luce dove c’è qualcosa che merita di essere cercato. Questo è ovviamente molto più difficile e chi si propone di organizzare e finanziare la ricerca scientifica deve tener conto che il fondamentale ruolo e scopo della ricerca scientifica è proprio quello di far luce dove prima c’era il buio. Consideriamo qui di seguito due scoperte che hanno acceso la luce, aprendo la strada ad alcune straordinarie innovazioni tecnologiche degli ultimi anni. Continue reading Ricerca fondamentale e innovazioni tecnologiche

Risposta a una critica di un dottorando

Il dott. Paolo Campli, “fisico di formazione. Ma è anche un dottorando in economia. ” ha  scritto un post di critica alla mia discussione con Michele Boldrin in cui simpaticamente mi definisce “squinternato”. Malgrado questo, malgrado il post non sia firmato (ma uno dei redattori del sito ha confermato l’identità) e malgrado mi attribuisca affermazioni che non ho mai fatto qui di seguito c’è una discussione dei suoi punti. Visto che è evidente che l’autore della critica il libro non l’abbia letto, mi riferisco a quello che ho scritto nel post ma integrerò qualche commento con quanto ho scritto nel libro (che consiglio al dott. Campli di leggere). In ogni caso noto una evoluzione positiva (seppure molto modesta) da discussioni a suon di tweets. Continue reading Risposta a una critica di un dottorando