Dal documento della National Security Strategy emerge che gli Stati Uniti sono immersi in una profonda crisi economica e sociale, maturata negli ultimi trent’anni con la trasformazione del sistema produttivo: da un’economia fondata su ricerca e innovazione si è passati a un modello finanziario dominato da oligarchie e rendite. Per competere con la Cina, Washington deve ora reindustrializzarsi e ricostruire catene di approvvigionamento globali, ridimensionando anche il proprio apparato militare (oltre 750 basi in circa 200 Paesi). A ciò si aggiunge la consapevolezza, sul piano strategico, di aver perso la guerra in Ucraina, combattuta per procura. Le élite europee rimuovono questo scenario catastrofico, il fatto di aver fomentato una guerra fallita, di avere un’economia in frantumi, media controllati e assenza di sviluppo. Oggi il primo passo è aprire una discussione reale sulle conseguenze della sconfitta, condizione preliminare per ripensare il senso stesso della Nato e dell’Unione europea, almeno nelle loro forme attuali.
General Wesley Clark, former commander of the NATO bombing campaign against the Federal Republic of Yugoslavia during the Kosovo War and Supreme Allied Commander Europe from 1997 to 2000, revealed a disturbing detail in a well-known 2007 interview: shortly after the September 11, 2001 attacks, he learned within the Pentagon of a strategic plan to launch military operations against seven countries over five years. The targeted countries were Iraq, Syria, Lebanon, Libya, Somalia, Sudan, and Iran. According to Clark, military interventions aimed at reshaping the geopolitical landscape of the Middle East and other strategic regions were outlined in the immediate aftermath of the 9/11 attacks. Iran appears as the final target on this list: all the other countries have already experienced profound upheavals, regime changes, and devastating civil wars. The export of democracy, much like the current narrative of the Iranian nuclear threat, has proven to be a tragic rhetorical cover to legitimize, in the eyes of Western public opinion, a strategy driven by geopolitical and economic interests with a clear objective: containing China and, more broadly, the economic and political rise of the BRICS countries.
RETHINK EUROPE Roma, Palazzo Valentini 9 Aprile 2025 ore 17:00 –19:30
Catania Palazzo Pedagaggi Sala XXI marzo Il think tank Pensare Insieme organizza l’evento “RETHINK EUROPE”, un incontro di alto livello che, in risposta al riarmo europeo illustrato nella risoluzione del Parlamento Europeo del 12 marzo 2025 “Libro bianco sul futuro della difesa europea”, propone riflessioni sul disarmo e sulle prospettive di Pace nel contesto internazionale.
The debate between Volodymyr Zelensky and Donald Trump in the Oval Office is rooted in two diametrically opposed views on the origins of the war and, consequently, on the path to ending it. Understanding the true causes of the conflict is therefore essential to defining an effective strategy for its resolution.
Zelensky’s approach, shared by European leaders, has been shaped by the dominant narrative in mainstream media: that this is a war of imperialist aggression, in which Putin has chosen to deny Ukraine’s independence, aiming to reintegrate it into Russia, following a logic comparable to that of Nazi Germany in 1939. According to this interpretation, negotiating with an imperialist aggressor would be a sign of weakness, serving only to fuel further expansionism. The only way to stop an aggressor, then, is to show firmness and determination. From this perspective, victory can only come in two ways: on the battlefield or by forcing Russia into total surrender at the negotiating table. In no case, however, should compromises be made—neither for moral reasons nor because it would further exacerbate the situation.
Il dibattito tra Volodymyr Zelensky e Donald Trump avvenuto nello Studio Ovale affonda le sue radici in due visioni diametralmente opposte su come abbia avuto origine la guerra e, di conseguenza, su quale sia la strada per porvi fine. Comprendere le vere cause del conflitto è dunque essenziale per definire una strategia efficace per la sua risoluzione. L’approccio di Zelensky, condiviso dai leader europei, è stato plasmato dalla narrazione dominante nei media mainstream: si tratterebbe di una guerra di aggressione imperialista, in cui Putin avrebbe deciso di negare l’indipendenza dell’Ucraina, mirando a riassorbirla nella Russia, secondo una logica paragonabile a quella della Germania nazista nel 1939. Seguendo questa interpretazione, negoziare con un aggressore imperialista equivarrebbe a una dimostrazione di debolezza, destinata unicamente ad alimentarne l’espansionismo. L’unico modo per fermare un aggressore, quindi, è dimostrare fermezza e risolutezza. In questa prospettiva, la vittoria può arrivare solo in due modi: sul campo di battaglia o costringendo la Russia alla resa totale al tavolo delle trattative. In nessun caso, però, si dovrebbe scendere a compromessi, né per ragioni morali, né perché questo aggraverebbe ulteriormente la situazione.
The Biden administration will be remembered for creating the conditions for the return of a devastating war in the heart of Europe, its unconditional support for Israel, and, last but not least, for escalating the economic war with China. The Doomsday Clock, managed by atomic scientists and symbolically counting the time separating us from nuclear apocalypse midnight, has moved from 100 to 90 seconds since Biden’s inauguration. Climate catastrophe is advancing inexorably; the United States has increased oil and gas production. However, the most critical front remains Ukraine, where two nuclear powers face off. The war, provoked by NATO’s eastward expansion—as is now evident to everyone—appears to be entering its final stage. The Trump administration will have to manage an epic defeat, this time not against an asymmetric enemy like in Vietnam or Afghanistan, but against a major power.
L’amministrazione Biden sarà ricordata per aver posto le condizioni per il ritorno di una guerra devastante nel cuore dell’Europa, per il suo supporto incondizionato a Israele e, in ultimo ma non meno importante, per l’acuirsi della guerra economica con la Cina. Il Doomsday clock, l’orologio controllato dagli scienziati atomici che simbolicamente conta il tempo che ci separa dalla mezzanotte dell’apocalisse nucleare è passato da 100 a 90 secondi dall’insediamento di Biden. La catastrofe climatica procede inarrestabile, gli Stati Uniti hanno incrementato la produzione di petrolio e gas, ma il fronte più critico è sempre quello ucraino dove si fronteggiano due potenze nucleari. La guerra provocata dall’avanzamento verso Est della Nato, come ora risulta evidente a chiunque, sembra avviarsi alla sua fase terminale. L’amministrazione Trump si troverà a gestire una sconfitta epocale, questa volta non contro un nemico asimmetrico come nel caso del Vietnam o dell’Afghanistan, ma contro una grande potenza.
Noam Chomsky, uno dei più lucidi intellettuali viventi, ha dato la più ficcante definizione della guerra in Ucraina: “La ragione per insistere nel chiamarla ‘invasione non provocata’ è che si sa perfettamente che è stata provocata. Infatti, ci sono state provocazioni estese risalenti agli anni 90. Questa non è solo la mia opinione, ma è l’opinione di quasi tutti i vertici dell’alto livello diplomatico degli Stati Uniti e chiunque abbia gli occhi aperti può vederlo, siano essi falchi o colombe, chiunque sappia qualcosa a riguardo. Ovviamente il fatto che sia stata provocata non implica che sia giustificata, sono due cose diverse”. Che siano così le cose è talmente evidente che lo stesso segretario generale della Nato Stoltenberg, diventato d’un tratto colui che decide le sorti di tutti i Paesi europei al di fuori di ogni legittimità democratica, lo ha confermato quando ha dichiarato in una audizione al Parlamento Ue che è stata la spinta incessante dell’America ad allargare la Nato all’Ucraina la vera causa della guerra e il motivo per cui essa continua ancora oggi: “Il presidente Putin, nell’autunno 2021, aveva inviato una bozza di trattato, che voleva che la Nato firmasse, di non permettere più alcun allargamento della Nato… Ed era una condizione preliminare per non invadere l’Ucraina… L’abbiamo respinto. Quindi, è entrato in guerra per evitare che la Nato si avvicinasse ai suoi confini”. Che la situazione fosse questa era noto sin dal 2008 quando l’ambasciatore Usa a Mosca William Burns, oggi direttore della Cia, scrisse un cablo a Washington, poi pubblicato da Wikileaks (altro motivo per avercela con Assange), dal titolo “No significa no” in cui spiegava che l’inclusione dell’Ucraina nella Nato avrebbe suscito la preoccupazione della classe politica russa in materia di sicurezza nazionale: “Gli esperti ci dicono che la Russia è particolarmente preoccupata che le forti divisioni in Ucraina sull’adesione alla Nato, con gran parte della comunità di etnia russa contraria, possa portare a una grande spaccatura con violenze o, peggio, una guerra civile. In questa eventualità, la Russia dovrebbe decidere se intervenire o meno: una decisione che non vuole prendere”.